I musei, tra nuove missioni e vecchie immagini. Orhan Pamuk, Claudio Magris, e il senso comune
Il 2016 è stato un anno importante per l’Italia dei musei. Milano è stata la città di accoglienza dal 3 al 9 luglio della 24^ conferenza internazionale dell’ICOM (International Council of Museums affiliato UNESCO) dedicata a Museums and Cultural Landscapes. Migliaia di direttori, curatori, conservatori, studiosi di musei di tutto il mondo hanno reso tangibile l’importanza dei musei, e hanno contribuito a quella che anche per noi può essere considerata una svolta, quella di dare ai musei una missione ulteriore.
Il museo è riconosciuto a livello internazionale – ma anche nel Codice italiano dei beni culturali – come «istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo. Aperto al pubblico esso compie ricerche che riguardano le testimonianze materiali e immateriali dell’umanità e del suo ambiente; le acquisisce, le conserva, le comunica e, soprattutto, le espone a fini di studio, educazione e diletto»(ICOM). Si tratta dunque di un istituto che può essere gestito dallo Stato o dagli enti locali, ma anche da soggetti privati, associazioni, singoli. I musei si occupano ormai anche del patrimonio culturale in senso generale e dei beni immateriali riconosciti dalla convenzione Unesco del 2003 per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale (PCI in italiano e francese, ICH ovvero Intangible Culturale Heritage nella lingua anglosassone).
Con la conferenza dedicata al paesaggi culturali i musei assumono un compito di presidio del territorio che è molto importante e apre a una nuova funzione sociale. Questa funzione è definita dalla Carta di Siena sul paesaggio culturale, un documento di ICOM-Italia e delle diverse associazioni museali italiane ancora in corso di approvazione definitiva, come un “Centro di responsabilità patrimoniale” che opera fuori delle sue mura, al di là delle sue collezioni, come centro di interpretazione del territorio in cui si trova ad operare e nel quale è chiamato a creare o potenziare delle “comunità di paesaggio”, ovvero comunità di cittadini culturalmente attivi che monitorano, tutelano, salvaguardano, comunicano il proprio paesaggio. In questo modo il museo si verrebbe a collocare nel punto di incontro tra due importanti convenzioni del Consiglio d’Europa, quella sul paesaggio del 2000 (che invita a considerare il paesaggio nel suo modo di essere percepito dagli abitanti) e la Convenzione di Faro del 2005 che definisce le caratteristiche e i possibili compiti delle ‘comunità patrimoniali’ o ‘ comunità di eredità’, viste come nuovi soggetti di diritti che operano in modo organizzato sul territorio.
I musei, quindi, nati dal collezionismo e dai gabinetti scientifici, vanno ormai verso una funzione culturale più ampia e sociale, ben articolata nella società civile. Sono riconosciuti come dispositivi conoscitivi per la società, il cui scopo non è conservare e classificare collezioni e mostrarle al pubblico, ma è quello di promuovere conoscenza e formazione culturale, di coordinare sforzi collettivi per la tutela del paesaggio e di valorizzare i saperi della gente per potenziare una vita collettiva equilibrata. In parte, questa definizione è legata anche al modo con il quale gli ‘ecomusei’ sono entrati, innovandola, nella famiglia internazionale dei musei, in parte al nuovo rilievo che hanno i saperi, le conoscenze pratiche e non solo ‘le cose’, nello scenario seguente la Convenzione Unesco del 2003. Ma questa nuova immagine del museo, per definizione «aperto», accogliente», «attivo», anzi capace di uscire dalle mura ed essere aiuto e risorsa per le comunità locali, è davvero riconosciuta da tutti?
1. Le chiese e il Senato sono musei?
Il finale del 2015 è stato duro per chi ha lavorato quaranta anni come me, per cambiare l’immagine del museo. Ma certo per tutto il popolo dei musei a partire da ICOM Italia, nel linguaggio pubblico più accreditato ci sono stati degli slittamenti di senso catastrofici che certo i protagonisti non avevano programmato, ma che facendo presa su un vecchio ‘senso comune’ sempre pronto a farsi avanti per economia di comunicazione (come i proverbi desueti) hanno buttato nell’abisso quell’immagine di museo che ancor faticosamente si arrampicava per arrivare alla vetta della montagna del riconoscimento come luogo di cultura viva, necessaria, aperta al mondo. Nell’udienza generale del 9 settembre 2015 sui temi della famiglia e della comunità, Papa Francesco ha detto: «Una Chiesa, secondo il Vangelo, deve avere la forma di una casa accogliente, con le porte aperte, sempre. Le chiese, le parrocchie, le istituzioni con le porte chiuse non si devono chiamare chiese, si devono chiamare musei», ecco cosa ha detto. Lo riferisce la Radio vaticana e la rivista on line “San Francesco”. Così titola la rivista “La chiesa ha porte aperte, se le chiude diventa museo”.
Potete immaginare l’ulcera di chi in questi quarant’anni ha fatto battaglie perché i musei fossero aperti, ha sostenuto la normativa sugli standard museali e sui requisiti dei musei pubblici, che hanno alla base l’apertura al pubblico più ampia. Non c’è niente da fare, la forza del senso comune è formidabile, geologica per tanti aspetti. Tra l’altro il Papa voleva sottolineare quel ruolo dela Chiesa di fare ‘comunità’ che oggi anche i musei perseguono nel loro farsi animatori della cittadinanza attiva e essere centri di responsabilità patrimoniale. Se fosse stato informato avrebbe potuto dire «anche i musei oggi costruiscono comunità, le chiese non posso essere da meno». Niente da fare. Posso testimoniare che in molte parti d’Italia i musei sono decisamente più aperti delle chiese. Si capisce e si condivide una polemica verso le chiese chiuse all’accoglienza ma quel che non si può concedere nemmeno a Papa Francesco è la produzione di una cattiva immagine dei musei (forse si riferiva all’Argentina?).
Ma sembra ci sia stata una consultazione tra poteri laici e religiosi contro i musei. Pochi giorni dopo l’uscita di Papa Francesco, infatti, il 16 settembre, a una settimana di distanza, il Presidente del Consiglio Matteo Renzi avrebbe detto, alludendo al Presidente del Senato Grasso per via delle lungaggini sulla votazione della riforma del Senato, che se continuava così avrebbe trasformato il Senato in un museo. La dichiarazione è poi stata smentita dall’ufficio stampa di Renzi, dicendo che una frase «così volgare e assurda» non era proprio pensabile di attribuirla al Presidente del Consiglio. Intanto però il Presidente del Senato, in modo indiretto, ma prendendo la frase per vera, aveva detto a sua volta che sarebbe stato meglio un confronto politico «piuttosto che far trapelare la prospettiva che si possa addirittura fare a meno delle istituzioni relegandole in un museo» (Il Fatto Quotidiano, 17.09.2015). Difficile trarre da questo confronto una immagine positiva del museo. Intanto si capisce che per la seconda carica dello Stato il museo è un luogo in cui ‘si relegano’ delle cose. Evidentemente non conosce la definizione di Museo dell’ICOM e dello stesso Codice dei beni culturali. Quanto a Renzi probabilmente voleva dire che se il Senato sta lì per perdere tempo e bloccare le leggi è meglio chiuderlo, trasformarlo in un museo.
Anche questa idea del museo non è edificante, in quanto fa coincidere il museo con l’inefficienza, il carattere sorpassato e ormai inutile di qualcosa. Per noi credo che un eventuale museo del Senato sarebbe una cosa molto viva, forse anche più interessante degli attuali dibattiti. Fatto sta che su questo dibattito indiretto con abuso di metafora del museo ci si è lanciato anche un giornalista di destra Maurizio Belpietro, lo sappiamo dal sito Dagospia, che titola: «Belpietro a favore del Senato come museo e della Camera come pinacoteca». E riferisce il parere del giornalista: «Facciamo del Senato un museo … sarebbe la migliore riforma costituzionale possibile».
Insomma il museo è una ‘figura’ culturale che, nel senso comune, viene interpretata come statica, non necessaria alla vita, al potere, all’uso efficace. E ciò anche quando da quarant’anni ci diamo da fare per mostrare il museo come luogo di conoscenza, di formazione, di stupore, dinamico, attivo, accogliente, necessario all’uomo del nostro tempo. Forse si potrebbe chiedere al ministro Franceschini, che sui musei sembra voler investire in modo innovativo, di promuovere un corso di aggiornamento lampo per informare su cosa sono oggi i musei, e su quali metafore possono sostituire la ‘vieta’ o ammuffita figura retorica del museo quale è ancora in uso nelle massime cariche dello Stato e del Cattolicesimo.
Molti di noi, antropologi, storici, storici dell’arte, naturalisti, etc, che hanno passato anni della vita dentro, intorno e con i musei sentono come una sorta di maledizione, di peso del destino che si abbatte sulle nostre attività e iniziative, questo resistere come roccia del senso comune, anche dove si tratta di persone di grande responsabilità che dovrebbero essere al di là del senso comune. E questo perché con fatica e impegno di tanti negli ultimi quarant’anni la forma del museo e la sua comunicazione sono cambiate in modo impressionante, hanno seguito le potenze dell’informatica, dell’interattività, della videoproiezione, dell’allestimento immersivo ed emotivo. Sono nati tanti musei ovunque, spesso con larga partecipazione dei cittadini, si sono definiti con lacunose leggi regionali gli Ecomusei, in montagna soprattutto ma anche in città per creare sia sviluppo locale che memoria e radicamento.
Sono convinto che i musei oggi, anche in Italia, sono accoglienti, innovativi, originali, capaci di far vedere la nostra cultura e la nostra storia in modi nuovi e più approfonditi, ma il moloch dell’Ottocento, del collezionismo e della cultura artistica e scientifica elitaria, li rendono ancora per i più ‘simbolicamente’ vetusti, statici, chiusi, anche se a noi sembra di avere vinto la battaglia per renderli nuovi, dinamici, aperti e proiettati verso il futuro, punti fermi e forti di cultura sociale futura.
Queste voci sono umilianti per il nostro lavoro e per la pratica dei musei italiani grandi e piccoli. Ma è da qui che si deve ripartire, non dalla nostra consapevolezza che si tratta di immagini false e stantie, non vere, occorre sempre partire dal dato di realtà che queste voci autorevoli riproducono, e che la voce collettiva del senso comune continua a rappresentare, sta a noi cambiare qualche cosa per far capire meglio quel che ormai davamo per acquisito?
Da tempo ammiro il lavoro di Fabrizio Ago sui musei nella letteratura e nella stampa in generale. È dal suo libro del 2009 che l’attenzione a come i musei sono citati e così entrano nella vita quotidiana è diventata anche per me forte. Fabrizio Ago, in Musei citati: l’idea di museo nella letteratura contemporanea (Pisa, Felici, 2009), aveva l’intenzione, come è scritto nella presentazione del libro di «evidenziare come il museo sia entrato definitivamente nel nostro quotidiano». Nelle sue pagine si vede che nelle pratiche della vita il museo si muove, entra nelle routines dei turisti, dei personaggi del jet set, della cronaca, diventa ‘location’ di film e di mostre o sfilate di moda. Sul web ho a lungo inseguito la notizia di Gigi Buffon che visita per ‘due’ volte una mostra di Chagall. C’è dunque da credere che la antica ‘distinzione’ per cui i musei erano i luoghi delle elites culturali sia ormai superata. Da lì forse si dovrebbe partire per riorganizzare i nostri messaggi. Ma è proprio andando alla ricerca di Musei citati che mi sono imbattuto in un’altra dimensione che sembra amica dei musei, ma forse non lo è davvero. Si tratta della dimensione poetica e letteraria ch spesso animano i musei, restituendo anche potenze di fascino, che li fanno diventare spazio per racconti anche drammatici e misteriosi, per attività cariche di vita, ma talora finiscono per condannarli all’immagine del collezionismo .
Su questo tema ho voluto fare una prova di lettura di alcune opere e di due autori di grande rilievo culturale, per capire se le loro rappresentazioni aiutano o no il museo ad uscire dalla schiavitù simbolica che lo vuole come spazio obsoleto, oscuro ed elitario.
2.1 Il museo della guerra contro la guerra
Per primo vorrei citare il libro-romanzo di Claudio Magris, Non luogo procedere (Milano, Garzanti, 2015). Finito di stampare nell’ottobre del 2015 e quindi subito dopo le esternazioni metaforiche antimuseali del Papa, di Renzi e del Presidente del Senato Grasso. Non lo tratterò ovviamente come romanzo sul piano letterario, ma come scrittura narrativa che ha come protagonista un museo.
Si tratta di un museo della guerra che invoca la pace, di un museo che ‘lui’, il protagonista senza nome del romanzo, «aveva deciso di chiamare ‘Ares per Irene’, il dio della guerra che si fa apostolo di pace» (p.10). Il libro si apre con le parole «Sottomarini usati – compro e vendo». Si tratta di una inserzione che il protagonista senza nome ha posto su Il piccolo banditore e che allude alla sua attività di collezionista indebitato ma implacabile. Il romanzo è pieno della parola museo. Ci racconta che Luisa, altrimenti detta Dott.ssa Brooks, è stata incaricata dal collezionista di armi di realizzare il museo, ma lui, il Maestro – così mi piace chiamarlo – prima della realizzazione muore in un incendio, probabilmente doloso, nel luogo che ospita la collezione e dove lui dormiva abitualmente dentro una bara come memento mori.
Il romanzo si sviluppa in arte sulla ‘mission’ visionaria e paradossale di un museo della guerra che, contenendo tutte le armi del mondo, rendesse infine impossibile combattere, e si concretizza dentro ideologie che paiono bizzarre e originali sull’amore e sulla morte, ritrovate da Lucia negli appunti per il museo a lei affidati. Il racconto vive nella alternanza tra i ricordi del Maestro e la elaborazione autobiografica delle sue teorie legate a una infanzia e una lunga vita negli scenari dell’Europa in guerra, e le riflessioni, i commenti, le vicende familiari e la vita personale di Lucia che legge le pagine del Maestro e le connette da un lato ai progetti del Museo, dall’altra alla sua vicenda personale, alla sua solitudine. ‘Vite parallele’ connesse dalle grandi armi della collezione destinata a diventare museo.
Ma la trama più nascosta e profonda del romanzo ha a che fare con il diario, le note personali, scomparse nell’incendio. È qui che era probabilmente scritto qualcosa che la comunità locale e alcuni di essa in particolare non voleva fossero rese pubbliche, tanto da ucciderlo e dar fuoco a lui e ai suoi appunti. Un mistero che ha a che fare con i nomi di chi collaborò con i nazisti nello sterminio degli ebrei alla Risiera di San Sabba, verso i quali il tempo e i dati di fatto decretano un “Non luogo a procedere” che il lettore sente carico di ingiustizia, ma che descrive un mondo ambiguo di confini e di transiti tra bene e male, persecutori e vittime, pieno di doppiezze e sfumature, in cui sia il Maestro che Lucia per ragioni diverse si trovano ad essere coinvolti. Fin dove continua la colpa, i morti insepolti e annientati chiedono, gridano ancora la loro denuncia verso gli occulti collaboratori degli aguzzini? Denuncia che avevano scritto sui muri prima di venire eliminati e che qualcuno aveva annotato e poi depositato nelle pagine scomparse del taccuino. La verità non è facile e non è diritta.
Il libro si muove in un sentimento di presenza ancora forte delle responsabilità della seconda guerra mondiale e di disagevole presenza di colpe per le quali mai c’è stata una richiesta di perdono (per seguire le tracce del dibattito francese cui Ricour ha dato pagine magistrali). Colpe per le quali, scriveva De Martino in Morte e pianto rituale, avviene il ritorno irrelativo dei morti insepolti, essi, i negati, ritornano a minacciare i vivi, i nascosti, entrano nelle coscienze e le inquietano, sommuovono e fanno cadere la distanza che fa credere nell’incolpevolezza, agitano i sonni e le opacità morali fino tradursi in ‘questo libro’ di Claudio Magris. Il non luogo a procedere si dà nelle istruttorie non nelle coscienze, in esse le turbolenze – la cattiva memoria – ritornano, talora si ereditano.
Anche questo versante della narrazione è a suo modo un museo delle colpe e al tempo stesso dell’impossibilità di stabilire confini certi e muri stabili del giudizio etico, ma questo orizzonte è lontano dal Museo, il Museo del Maestro, «Ares per Irene ovvero Arcana Belli. Museo totale della Guerra per l’avvento della Pace e la disattivazione della Storia», è un progetto aperto e affidato alla Fondazione creata dalla Provincia e dal Comune ad hoc in collaborazione con l’assessorato alla cultura del Comune. Tutto in modo molto realistico, secondo regole e pratiche che in tanti abbiamo sperimentato. Magris è consapevole delle nuove modalità dei musei, muove l’attività di Luisa tra videoproiezioni e didascalie, ma è sopraffatto anche lui dall’incombenza del collezionismo bellico e dalla paradossalità del suo darsi per il fine di combattere le armi e la guerra.
La collezione domina tutto, ed è essa stessa in un zona di contatto e di contagio tra bene e male, tra pace e guerra, visto che anche il Maestro è stato mediatore con i nazisti, vuol la leggenda che si sia fatto dare la giacca della divisa militare dell’ultimo comandante tedesco di Trieste per la sua collezione. Come nella tradizione delle collezioni d’arte dall’umanesimo, e come anche nella figura del collezionista Utz di Bruce Chatwin (ultimo romanzo del 1988, pubblicato da Adelphi nel 1989, anch’esso mescolato con la seconda guerra mondiale e poi con il comunismo, con il tema dei confini, della moralità e della morte), il museo è in Magris la collezione. È il sogno in essa incorporato, reso qui più marcato del disegno di pace universale. Per Luisa Brooks, allestitrice del museo, in una meditazione:
«La morte si addice ai musei. A tutti, non solo a un Museo della Guerra. Ogni esposizione – quadri, sculture, oggetti, macchinari – è un natura morta e la gente che si affolla nelle sale, riempiendole e svuotandole come ombre, si esercita al futuro soggiorno definitivo nel grande Museo dell’umanità, del mondo, in cui ognuno è una natura morta» (pag.12).
E così recita un appunto del Maestro stesso, che dice che poiché la stessa vita è guerra: « L’unica cosa è trasportare tutto in un Museo, dove non c’è più guerra perché non c’è più vita». Forse non ha senso usare un romanzo come ‘fonte’ per difendere la distanza del museo attuale dal collezionismo. Ma ho cercato di mostrare le ragioni di questo percorso. Già negli anni ’60 Cirese parlava per il museo di metalinguaggio, del disuso, morte degli oggetti, che nel museo diventava ‘nuova vita’ delle cose (da un intervento palermitano del 1967 poi in Oggetti, segni, musei, Torino, Einaudi, 1977). In effetti, anziché di morte per il museo come oggi lo si concepisce, si può parlare di resurrezione. O meglio, la morte resta uno dei riferimenti fondamentali del museo sul piano concettuale, ma in fondo esso è una delle istituzioni di contrasto alla seconda morte, quella per dimenticanza, da quando accoglie non solo i monumenti del potere ma le eredità delle piccole vite (Zev Gourarier) ed è uno spazio di commutazione di paradigmi, di alterità, di seconda vita, un fermento attivo, seminale, ma anche pubblico, collettivo, nelle società attuali.
Due tracce: collettivo, pubblico, e museo che accoglie ‘piccole cose di piccole vite’ mi portano all’altro caso di lavoro letterario che vorrei discutere dal punto di vista del Museo.
2.2 Post scriptum firmato C.M.
Alla fine del romanzo Non luogo a procedere nella nota finale, a pagina 361/362, siglata C.M., Claudio Magris opera un piccolo scoop stupefacente per il lettore: «…per il protagonista senza nome di questo libro mi sono ispirato del tutto liberamente a un persona realmente esistita e di grande spessore, il professore Diego de Henriquez, un geniale e irriducibile triestino di vasta cultura e accanita passione che si è dedicato tutta la vita (1909-1974) a raccogliere armi, materiale bellico di ogni genere per costruire un originale, debordante Museo della Guerra che servisse, tramite l’esposizione di tanti strumenti di morte, alla pace». Henriquez morì nel rogo del capannone dove dormiva insieme agli oggetti della sua collezione e fu oggetto anche di un romanzo Le lunghe ombre della morte, scritto come thriller da Veit Heinechen (2005, ed. it., e/o editore, Roma) in cui si allude a collezioni di armi e a liste segrete di conniventi con le stragi della Risiera di San Sabba.
Lascio al lettore il realizzare il desiderio che io ho subito avuto di cercare su Internet, di scoprire il profilo mitteleuropeo ricchissimo di Henriquez, di incuriosirsi al romanzo giallo e alle sorti del ‘vero’museo, che, si scopre, ebbe effettivamente dal 1969 una collaborazione col Comune di Trieste, si chiama Museo della guerra per la pace Diego de Henriquez, ed ha un sito con questo nome, ma è stato aperto solo nel 2014. Le poche immagini che si vedono nel sito sono coerenti con il racconto di Magris. Ora ho in progetto di andare a vederlo, ma più come un pellegrinaggio che come una normale visita a un museo.
Il Premio Nobel per la letteratura del 2006, Orhan Pamuk, ha inviato al Convegno internazionale dell’ICOM convocato a Milano a partire dal 4 luglio 2016, un video-messaggio sui musei, e sulla sua filosofia del museo, che è stato pubblicato anche su La Repubblica il 4 luglio. Ecco un evento importante e favorevole al mondo dei musei di cui parliamo. Il messaggio è breve e chiaro e contiene nove tesi a favore dei musei , sostanzialmente si tratta dell’invito a non considerare più i musei di anni fa come i monumenti delle nazioni ma gli spazi delle vite quotidiane.
Partiamo dall’ultima tesi:
«Se i musei non vengono sradicati dai loro contesti e dalle loro strade ma sono situati con cura e ingenuità nei loro luoghi naturali, possono avere modo di raccontare autonomamente le proprie storie. Ci servono musei modesti che possano onorare le strade, le case e i negozi che li circondano e trasformarli in momenti della loro esposizione (…). In breve: il futuro dei musei è all’interno della nostra casa (…). Siamo stati abituati ad avere l’epica (nazionale n.d.s.) ma quello che ci serve sono i romanzi (…) nei musei avevamo la Storia, ma quello che ci serve sono le storie (…) ».
Delle tesi molto belle, un po’ difficili penso da accettare per le migliaia di museografi professionisti riuniti a Milano, ma che sta dentro una chiara e seducente poetica letteraria che coinvolge entusiasticamente l’istituzione museale e la porta nelle strade e nelle piazze come Galileo voleva fare con l’astronomia. Avevo già letto queste tesi ne L’innocenza degli oggetti (Torino, Einaudi, 2013, ed. orig. 2012), il catalogo del Museo che Pamuk ha realmente allestito a Istanbul, nelle pagine 54-57, col titolo Un modesto manifesto per i musei. Si trattava di 11 tesi, ora leggermente rielaborate. Tesi che mi avevano colpito e convinto, ne avevo fatto anche oggetto di corsi postlaurea dedicati alla formazione museale al Museo delle Marionette Antonio Pasqualino a Palermo, pochi anni fa. Ma questo discorso è meglio cominciarlo dall’inizio.
Nel romanzo Il museo dell’innocenza Orhan Pamuk fa emergere il mondo delle cose, della vita quotidiana, della memoria come funzione del museo, e connette il Museo con una storia d’amore drammaticamente conclusa con un incidente d’auto in un viaggio appena cominciato verso Parigi (Orhan Pamuk, Il museo dell’innocenza, Torino, Einaudi, 2009, ed. or. 2008). Nel romanzo dell’amore tra Kemal e Fusun, lui un abitante dei quartieri alti di Istanbul e di classe sociale elevata e lei (Fusun) una ragazza dei quartieri popolari della città, pieno di contraddizioni, di fasi di abbandono e di ritorno, di istinto, opportunismo, passione, sessismo, senso comune e modo di vita turco, le vicende sono sempre segnate dai bar, le strade, le auto, i trasporti su strada e su nave, le case, i quartieri di Istanbul. Il loro amore contrastato è un amore ben contestualizzato, che si radica nelle cose e in esse si esprime anche nei cicli di conflitto e di passione che si susseguono. Fusun nelle pagine finali del libro si procura la morte schiantando l’auto che guidava su un grande platano. Il romanzo di amore e morte è solo sfiorato perché Kemal sopravvive, e con lui continua a vivere l’amore per Fusun che si trasforma nel desiderio di possedere tutti gli oggetti che erano suoi e perfino le case in cui aveva vissuto o in cui era stata nei momenti d’amore. Kemal, nel lungo racconto delle visite a casa della famiglia di Fusun, descrive il suo feticismo delle cose, e il suo costante furto di piccoli oggetti dall’appartamento, che tiene in casa e che mantengono vivo il mondo sentimentale da cui sono stati sottratti.
La museografia nasce dunque come amore per le cose che sono state in contatto con l’amata, da una sorta di metonimia oggettuale, le cose stanno per lei, ne ricostruiscono in modo plurale e quasi all’infinito la presenza assente, ma la figura del museo come istituzione della memoria ‘privata’ e della sua comunicazione e della resurrezione attraverso esse del sentimento, domina il libro che ha voluto usare il nome del museo già nel titolo. L’innocenza degli oggetti sarà il titolo del catalogo del Museo che Pamuk realizzerà realmente a Istanbul, a partire dal romanzo, e caricherà di sue relazioni di memoria e di biografia giocando il museo tra fiction e memoria familiare (Orhan Pamuk, L’innocenza degli oggetti. Il museo dell’innocenza. Istanbul, Torino, Einaudi, 2012 , ed or. 2012). Vi si è ispirato anche il regista Frank Gee per un film su Istanbul e il collezionismo, presentato quest’anno al festival di Venezia, il museo è anche entrato in tutte le guide turistiche di Istanbul. In un certo senso sembra essere una forma nuova di estensione e di comunicazione del romanzo. Anche il sito http://en.masumiyetmuzesi.org/ che dà informazioni essenziali, si caratterizza per questa ambiguità, ha un book shop, e può anche essere usato come una sorta di guida ai quartieri storici di Istanbul sui quali il racconto insiste.
Pamuk mi piace come scrittore della memoria, anche come scrittore della città di Istanbul che mostra sempre sia il proprio ceto sociale, sia il modernismo della sua storia familiare, ma che poi si basa sulla pietas per un passato turco che la occidentalizzazione ha sradicato, violentemente estirpato. Pamuk ha fatto dei corsi di calligrafia araba quasi a voler recuperare quel mondo precedente i caratteri alfabetici. Nella oscillazione tra modernità e memoria, si afferma la sua distanza da una Turchia islamica che lo ha reso inviso a vari regimi e che egli indirettamente critica nella sua opera, non condividendone nessuno. La sua distanza dal potere. Ne Il museo dell’innocenza questo movimento paradossale della sua poetica è molto in evidenza, perché il romanzo si muove tra stili educativi, immagini del maschio, usi familiari, regole matrimoniali di vari ceti alla prova della modernizzazione, e si cerca di elaborare da un lato una teoria compiuta del valore fondamentale della individualità, dall’altro si mette in evidenza la drammatica deprivazione di identità della cultura tradizionale.
Scoprire il museo come grande risorsa occidentale, come avviene nelle pagine del libro, in cui la trasformazione dell’amore in museo viene anche anticipata rispetto all’esito della morte di Fusun, è anche distinzione tra musei nazionali e musei di artista, case museo, musei delle persone. Negli ultimi capitoli Kemal concepisce l’idea del museo, entra nel mondo dei collezionisti, visita tantissimi musei del mondo e a Istanbul – vien scritto – «fui introdotto nell’ambiente dei collezionisti e iniziai a visitare le loro dimore stracolme di oggetti e reperti» (pag. 546). È una attività quasi ‘vergognosa’ in Turchia, dove si costituisce timidamente negli anni Novanta una Associazione degli amanti degli oggetti da collezione della Turchia. Si capisce che per sua cultura storica, religiosa e collettiva, un po’ per l’accentuato strappo modernista dei ‘giovani turchi’, la Turchia di Kemal non aveva spazio per i musei delle cose della vita quotidiana, per le collezioni e le ‘tracce’ della memoria passata. Vuole il romanzo che Kemal pensi che la sua storia e la sua collezione possano interessare uno scrittore, e così nelle ultime pagine Kemal incontra Orhan Pamuk (autore e ora anche personaggio) e gli affida la storia, e anche il museo.
Concettualmente sia il romanzo che il museo nascono dalla vita che si è trasformata in collezione. Proponendosi nel 2012 come museografo, Pamuk rigioca tutti questi elementi tra narrazione e storia familiare, ed arriva a teorizzare dei musei che conquistino la dimensione delle case private, dei ristoranti, dei bar, degli spazi della vita, e non quella dei monumenti e dei mausolei. Io credo sia un tema interessante, che da noi in Italia è stato già vissuto negli anni Settanta, del quale forse il campione è stato Ettore Guatelli, rimasto però legato a un progetto di museografia del mondo dei mezzadri emiliani. Il collezionismo anche accanito è assai vivo lungo il Novecento e il fenomeno della ‘smemoratezza’ ha avuto in effetti nei musei un punto di resistenza. Ne ho scritto ne La smemoratezza del moderno (in L. Ronzon, a cura di, Manifattura Tabacchi /Milano, Milano, Fondazione Museo della scienza e della tecnologia, 2009: 14-40; La smemoratezza del moderno, in I tetti rossi: San Salvi da manicomio a Libera Repubblica delle Arti, Firenze, Polistampa: 29-40) Una prima volta trattando delle ex manifatture tabacchi, e della scomparsa del ‘fumare’ nel nostro mondo e nella nostra memoria, e una seconda parlando degli ex ospedali psichiatrici anch’essi travolti dalla dimenticanza.
Credo che Pamuk voglia segnalare un fenomeno specificamente turco, di ‘smemoratezza’ del moderno, e radicato anche in una idea religiosa della vita, e in una idea dello Stato moderno ostile alle variazioni individuali della vita e delle storie. Credo quindi che nel suo messaggio universalista sui musei, e sulle singole storie che si fanno collezioni di oggetti, ci sia una componente molto legata alla cultura di quell’area, che apre anche alla comprensione di questi temi nelle culture arabe e musulmane. E credo invece che i musei europei abbiano acquisito la capacità di rappresentare singole storie. Cito sempre come riferimento di questa acquisizione uno scritto che viene dalla Parigi del Musée des Arts et traditions populaires, oggi chiuso e trasferito a Marsiglia, con una diversa missione. Era il 1984, quando, su Ethnologie francaise, Zev Gourarier teorizzava un nuovo ruolo dei musei, mediatori tra i vivi e i morti. Egli partiva dalle proposte crescenti di donazione di oggetti e documenti di persone morte che le famiglie non volevano assumere in eredità, e proponeva che i musei – per consuetudine abituati a non accettare vincoli alle collezioni e a non accogliere collezioni non interessanti dal punto di vista delle acquisizioni principali – accogliessero donazioni private con il vincolo di mantenere il nesso tra le cose, non disperdendole, mantenendo dentro di esse la memoria dei familiari, l’eredità che si era fatta pubblica, ma veniva dal mondo delle storie private (Gourarier, Zev, Le musée entre le monde des morts et celui des vivants, in « Ethnologie française», XIV, 1: 67-76).
Era un gesto che ai miei occhi segnava la capacità del museo europeo a raccontare anche le storie, non solo le glorie.
4. Askavusa
Sto cercando di dire che, anche quando delle opere letterarie si avvicinano al mondo del museo, fino a condividerlo, a farne oggetto di qualcosa di più della location anche intensa, ma piuttosto di una poetica, quel museo è difficile che sia il ‘nostro’ museo. Quella istituzione viva e accogliente non si misura a collezioni ma a capacità di comunicazione, di uscita dalle mura, di farsi protagonista della società intorno, centro di responsabilità patrimoniale e del paesaggio culturale. Il museo in letteratura riesce meglio nella parte dell’eroe negativo, anche se pieno di sogni e di progetti (esagerati, fuori realtà, epistemicamente aberranti) come in Claudio Magris, nel cui romanzo forse il messaggio più duro e forte è quello del taccuino perduto in cui si denunciava (quasi voce dei morituri graffiata sulle mura della Risiera) la connivenza nascosta alle morti di San Sabba, più che il progetto di museo di Ares per Irene.
In Pamuk il museo cerca di essere un eroe positivo, un agente di laicità, di desacralizzazione e di destatalizzazione della vita, di memorie individuali, ma il suo mondo finisce per essere prigioniero della pluralità delle cose, dei mondi indefiniti e animati da una sete di infinito che producono acquisizioni di oggetti e passioni di possesso. Nel suo lavoro originale e affascinante, il museo è anche prigioniero del romanzo e della autobiografia. Ne è avviluppato. Ho conosciuto diversi casi di museo-biografia, e in specie uno che mi è stato caro, che era la casa privata di Letizia Franchina, funzionaria della soprintendenza senese dei monumenti, che ha scritto un libro, Per capire casa mia. Guida per il visitatore disorientato (Arcidosso, Effigi, 2012), che è forse la cosa più vicina alle idee di Pamuk, ma che infine, dopo la sua morte è un progetto chiuso, un pesante ricordo per i familiari anche se resta, a mio avviso, una traccia importante per spazi di intersezione, di accoglienza, di uso da parte dei musei del linguaggio delle singole storie degli oggetti. Così tutto il mondo delle Case museo e dell’Associazione Nazionale Case della Memoria.
Nella mia esperienza ho cercato di vedere gli oggetti e la vita che in essi viene in un certo senso incorporata, in una dimensione vicina a quella del museo, tale anzi da essere usata nel museo e animarlo di spiriti vitali, quella che ho chiamato con espressione di Man Ray, artista legato al surrealismo, de ‘gli oggetti di affezione’ (vedi in particolare P. Clemente, “Un fiore di pirite”. Introduzione ai nostri oggetti di affezione, in P.Clemente e E. Rossi, Il terzo principio della museografia, Roma, Carocci, 1999). È il mondo della ricerca antropologica sugli oggetti che, estendendo la sfera della tecnologia, si espande verso la memoria dell’uso, verso il ricordo delle persone e delle storie, verso il consumo. Temi trattati da vari antropologi contemporanei (Kopitoff I., La biografia culturale degli oggetti: la mercificazione come processo, in Mora E., a cura di, Gli attrezzi per vivere. Forme della produzione culturale tra industria e vita quotidiana, Vita & Pensiero, Milano, 2005: 77-111; La Cecla F., Non è cosa. Vita affettiva degli oggetti, Eleuthera, Milano 2002; D. Miller, Per un’antropologia delle cose, Milano, Ledizioni, 2013; Id., Cose che parlano di noi. Un antropologo a casa nostra, Bologna, Il Mulino, 2014), in modalità spesso estranee al mondo dei musei, che forse lo snobba, e che sarebbe utile mettere in connessione.
Da molti poeti il mondo delle cose non è visto come luogo di nostalgie, ma come mondo nemico, per tutti Alda Merini:
Agli oggetti non importa nulla della nostra vita,
ma a noi interessa molto la storia di questi esseri feroci
che invadono il nostro mattino.
Questi esseri che si svegliano con noi all’alba
e che continuano a ripetere crudeli:
Sei ancora qui con noi, ancora una volta viva.
(in “L’altra verità. Diario di una diversa”).
Sono gli oggetti, dunque, anche un mondo di potenze da esplorare, dotati talora di forza magica, come in alcuni musei africani e nativi americani viene ricordato, potenziali fondatori di musei e feticci dei collezionisti, ma anche realtà distinte per rintracciare fila antropologiche di vari mondi. Penso ora alle varie iniziative di museografia che stanno nascendo a Lampedusa intorno alla drammatica trasformazione di quell’isola in un interfaccia mondiale dei processi migratori dai sud ai nord del mondo. Penso alla mia perplessità per il progetto di Museo della fiducia, inaugurato di recente a Lampedusa dal presidente Mattarella e tante autorità, con opere dei grandi musei, un Caravaggio che viene dagli Uffizi, un documento archeologico dal museo del Bardo di Tunisi, il tutto “Verso un museo della fiducia e del dialogo per il Mediterraneo”. Difficile affrontare il mondo migratorio con i nostri oggetti-simbolo tratti da musei che sono a loro modo espressione di una cultura di élite.
Quanta immane fatica si spreca anche nel dialogo tra museali e potere: come non pensare che il grande progetto euro-mediterraneo del Museo di Marsiglia (figlio del MNATP di Parigi lì trasferito e inscatolato) il MUCEM, Musée des civilisations de l’Europe et de la Méditerranée, cercava proprio di costruire una storia comune del mondo europeo e mediterraneo, ne ho seguito il percorso anche come inutile membro del Comitato Scientifico, e sarebbe stato lì a fare da riferimento per quel che avviene a Lampedusa, se non fosse stato depistato verso altri sentieri dal governo francese, per la gloria della Francia, non per il dialogo tra i popoli. Ricordo che all’inizio dell’estate del 2009 l’associazione Simbdea mandò una lettera di protesta al ministero francese della cultura, la cosa stupefacente fu che ricevemmo una risposta, ci scrisse l’allora ministro Mitterand, nipote dell’ex presidente socialista e membro del governo di destra, che ci tranquillizzò, ma la svolta ci fu e resta: di fatto il più grande museo francese sulla cultura popolare europea, creato da G. H. Riviére, è in scatola a Marsiglia. Si ricomincia sempre da capo, anche a Lampedusa. Gli si può dire che per una decina di anni studiosi seri hanno girato il Mediterraneo per tracciare percorsi di tecniche, di saperi, di materiali? Proprio nei luoghi che ora sono i centri delle guerre e che connettevano con le nostre storie medievali e moderne? Nessuno ti starebbe a sentire. Per il Museo della fiducia, si capisce la buona volontà, il disorientamento, assai meno si capisce l’investimento in quel che si crede un valore universale che onora l’accoglienza: pezzi da museo nel senso antico del termine.
Queste istanze epocali, che cercano di fondarsi sulle vite negate, sono più nell’opera di Mimmo Paladino, la porta che accoglie simbolicamente i morti annegati in quel mare, “La porta che guarda l’Africa in ricordo di chi non è mai arrivato”. E sono anche nei progetti di raccolta di oggetti migranti della associazione Askavusa (la scalza) di Lampedusa (http://www.askavusa.com/about/), nelle foto di Matt Cardy agli oggetti abbandonati nei campi di permanenza dei profughi, in specie in Grecia. Nel pensare al ruolo dei telefoni portatili in questo drammatico spazio di spostamenti di popolazioni che sono fatte di individui, per i quali la povertà, il dolore e il telefono mobile sono connessi da un legame di vita o di morte. Il mondo delle cose genera musei, li trasforma, affida ad essi la propria maturità epistemologica. E i musei si trasformano, cambiano, accolgono, fanno parte dei processi, anche se continuano ad essere pensati in modo antico, più vicini alla loro genesi tra Settecento e Ottocento che alla loro splendida e poco riconosciuta maturità nel mondo della globalizzazione.
Dialoghi Mediterranei, n.21, settembre 2016
_______________________________________________________________